Nel 2010, al rientro a Las Vegas da un mio viaggio in Ecuador, incantata dalla bellezza dello spagnolo, con cui da autodidatta ero riuscita a farmi capire dagli andini, decisi di iscrivermi a un corso di spagnolo alla UNLV, per approfondirne la conoscenza. Il mio teacher honduregno, Senor Luis, mi incantò ancora di più perché per introdurre uno dei verbi ostici dello spagnolo, invece di soffocarci di fotocopie, declinazioni, spiegazioni e bla-bla-bla, ci fece guardare e ascoltare alla LIM la Penelope Cruz che cantava Volver, jo vuelvo, tu vuelves, ela vuelve, nosotros volvemos…
Mi trovavo in quegli anni in pausa riflessiva dall’insegnamento, a cercare di capire da che parte andare nella vita, e dopo aver girovagato per gli splendidi deserti del far West (e per quelli meno splendidi, interiori, dei suoi abitanti), ecco che dopo anni di didattica anarchica e sovversiva, per spiegare un verbo ostico dello spagnolo, un prof dell’Honduras si metteva a usare niente meno che … il WEB !
Era il 2010, e quell’incontro mi aprì un mondo, che ancora adesso, a distanza di dieci anni, faccio fatica a far comprendere a molta della comunità scolastica con cui entro in rotta di collisione. Comunità che specie in tempo di Covid oscilla da una distopica visione all’altra della didattica (digitale, integrata, a distanza , rotelle…) soffocata da impegni inutili e vuoti che la burocrazia scolastica impone. Ai più fortunati fra noi capitano in sorte colleghi preparati e cooperativi; ai baciati dalla fortuna, dirigenti che non mettono mai la didattica in secondo – terzo, quarto … – piano; o che non calpestano il lato umano della vita. Della professione.
Era la prima volta in cui vedevo la realtà – quella vera – fra i banchi di un’aula linguistica. La figura dell’insegnante aveva cambiato veste, il brio si univa all’utilità, ma soprattutto il messaggio arrivava diretto agli interessati: li divertiva, li istruiva. Involve me and I’ll understand.
Lo diceva già Maria Montessori, e poi Don Milani – due nomi di cui ci pregiamo molto solo (!) quando si tratta di rivendicare il genio italiano, di sfoggiare un certo Made in Italy per così dire intellettuale: l’apprendimento va a buon fine quanto più si fonda su un esperire concreto e ritagliato sui bisogni e le caratteristiche dei discenti. Quest’ultimo assunto l’ho ripreso e fatto mio da uno dei tanti brillanti interventi di Tullio de Mauro, linguista compiantissimo, intellettuale di rara umanità e modernità.
Di questo sono sempre stata convinta, fin dal mio inizio come insegnante, fra i più serendipici che ci potessero essere: cercavo un matrimonio felice e invece ho trovato il lavoro più bello che c’è. Ma è stato dopo aver scelto di andare ad insegnare in un Centro di Istruzione per Adulti che questa consapevolezza è divenuta una esigenza didattica urgente.
L’approccio didattico dell’ “apprendimento autentico”, nei CPIA, si rivela particolarmente efficace con gli studenti adulti stranieri per i quali diviene mezzo privilegiato di esplorazione, discussione e costruzione di concetti e relazioni s i g n i f i c a t i v i applicabili a contesti che coinvolgono problemi e progetti reali.
Le tecnologie – a patto che si sappiano usare e insegnare ad usare! – in questo senso si rivelano preziose, valide alleate, strumenti atti ad appianare le disuguaglianze e la non manipolabilità del sapere che viene trasmesso. L’idea fondamentale è che gli studenti abbiano un maggiore interesse a perfezionare le proprie competenze di letto-scrittura nella lingua seconda, la quale da mero oggetto di studio a fini valutativi diviene vero e proprio mezzo comunicativo grazie al quale poter condividere il proprio pensiero, e attraverso di esso la rinegoziazione di sé, del proprio vissuto, dei propri valori.
Spesso nelle classi di Italiano per stranieri fra i discenti circola un sapere che chiede con urgenza di trovare la giusta veste per uscire, per essere condiviso e comunicato. L’aula allora non può restare un luogo di trasmissione da uno a tanti, ma fra tanti. Un atto paritario e orizzontale, non gerarchico da chi sa (ma è spesso incapace di trasmettere) a chi non sa (perché è impossibilitato a ricevere); poiché nel caso degli stranieri non si tratta (soltanto) di non sapere, ma di non saper dire. L’aula allora può diventare un luogo (virtuale, non solo fisico) diverso dove noi co-produciamo i saperi necessari.
Ma per fare questo occorre competenza, passione, e soprattutto occorre il coraggio di cambiare le cose.