Arizona mon amour

C’era una volta un ex pugile di nome Rocky. Un indiano pazzo e pervertito con un coltello tatuato sull’avambraccio sinistro e due rose incrociate con una croce al centro sul destro…

Sì, vabbé, sei mica al cinema? mi dicevano. Si può mica scrivere una storia che ha per protagonista un pugile di nome Rocky che da anni combatte per una causa persa in una cella di due metri per tre. A chi vuoi che gliene frega? A chi vuoi che interessi? Chi cerchi di convincere?
A mia mamma avevo detto che andavo … Dove cazzo andavo?  Boh, toh, ma sì, per un colloquio di lavoro, ecco, tanto la faccia non me la vedeva. Sì, ma come ci vai? Da sola? E se c’è qualche malintenzionato? O i neri? Ci sono, i neri? Ho provato a tranquillizzarla ma dopo qualche battuta, sapendomi leggere come un libro aperto, la storia del lavoretto sicuro e pulito non l’ha bevuta. Io a inventare faccio pena. Non sarà mica un altro scrittore? Non ti sei per caso rimessa a scrivere una storia? che poi trascuri la bimba e un domani ne risente… Fai la brava mi raccomando e cerca di stare serena. Pronto? Pronto! Dove hai detto che vai…?


Uno SMU. Una moderna filiale di Auschwitz. Sperduta nel deserto arizonese, lungo la I 79, tutt‘intorno solo pietre e rovi e cespuglietti spinosi dalle deboli radici che non riescono a rimanere ancorati in un posto, e alla prima folata di vento si staccano e rotolano via, alla deriva, come un povero astronauta che ha fatto corto circuito. Help me. E se buchi? Help me. Se ti si fonde il cervello? Povera aquila ossequiosa, ma dove credi di andare. (…) Quello non era il carcere di Massa, dove il massimo che potevi trovare era un omicida nostrano o qualche banale spacciatore o stereotipato magnaccia extracomunitario, ché in provincia si sa, anche il crimine ha un sapore nostrano. Ladruncoli, ricettatori, ma anche il delinquente più incallito, il mafioso più convinto, da noi alla fine si pente e si redime. Mentre lì, ovunque guardassi, ovunque leggessi o ascoltassi, giornali, tv, pali della luce, bacheche delle biblioteche, dei cinema e dei supermercati, dappertutto c’erano WANTED. Da ogni angolo di questo Far West maledetto e sabbioso sbucavano facce mostruose: i tipi di CSI, i Cold Case, gli zombie di Thriller, i serial killer di Milwokee, gli Annibali, i Cannibali. Il crimine era una pellicola che arrivava fin dentro casa, ti si appiccicava addosso e non c’era verso di levarsela. In qualunque piazzale, parco, distributore, non appena il sole calava, l’aria si ispessiva, i volti si facevano alieni, gente che solo a guardarla metteva i brividi. Erano i compagni con cui Rocky giocava a pallacanestro, barattava cicche con telecronache sportive; era la gente a cui prestava le mie foto e faceva annusare le mie lettere, e in cambio delle quali ricevevo dozzine di disegni a biro a Pasqua e a Natale, cartoline di auguri con croci, mazze da guerra, volti gotici, seni, chiappe, gente che aveva fatto del crimine una bandiera e una carriera, che non gliene importava un cazzo se li mettevano sulla sedia elettrica, molti di loro era proprio quello che volevano, ciò che cercavano: un momento di gloria, la redenzione estrema, il contatto ultimo con la vittima. Si erano giocati il tutto per tutto, avevano fatto a bell’apposta a sballare. Anche il jackpot più insignificante riusciva a valere la vita di un uomo. Molti di loro avevano massacrato per poco più di 150 dollari, l’onorario del futuro carnefice, talvolta anche meno. Quasi mai saltava fuori un briciolo di passione, chessò, un padre padrone, un marito geloso, un vino cattivo. No, era gente annoiata e senza senso, gente delusa, gente scontata, gente narrativamente insulsa che un bel giorno faceva corto circuito e ciao. Quella gente lì io l’avevo invitata a casa mia…

Tratto da Help me! di S. Pendola (Ed. Clandestine)

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