Caro compagno di scuola che poco fa tornando da Poggio all’agnello senti cosa mi è successo.
Sulla Principessa c’era già traffico perché mi sn svegliata tardi, e allora dovevo fare la Gymkhana (che in realtà avevo scritto Giovanna per il correttore automatico) lungo il ciglio della strada fra lo sterrato e l’asfalto che sull’asfalto si corre meglio ma è pericoloso con quei pazzi che vanno ai 120 km/h.
E niente, che mentre calpestavo lo sterrato consideravo quanto sia più faticoso per via degli aghi di pino e del ghiaino e fogliame vario, e a furia di considerare (e schivare macchine), mi è venuta in mente la Dentoni, quella che suo babbo ci ha il forno, fra l’altro proprio dietro casa mia (la mia ultima, penultimo trasloco), mi è venuta in mente perché lei un anno corse la campestre, mi pare in seconda. E insomma ero lì che corricchiavo su un letto di aghi di pino e mi si è accesa nella testa la parola campestre, e subito dopo lei : la Giovanna Dentoni – un lemma del mio reservoir lessicale legato alla parola campestre.
Cioè, se io penso c a m p e s t r e, o se qualcuno mi ci fa pensare perché nomina questo genere di corsa, io penso a lei e a una mattina di marzo di quelle che ti esce ancora del gran fumo dalla bocca tanto è freddo, e lei che correva in pineta assieme ad altri ragazzini, erano tanti, era la qualificazione per le provinciali, e noi della seconda C a fare il tifo, una giornata quasi epica per come lei dopo non so quanti giri di campo grondava di sudore e sembrava a ogni giro che collassasse da un momento all’altro, in volto paonazza e madida, tutta piegata in avanti, e noi a sostenerla.
Quando sento dire la parola campestre ecco io penso a lei, ma anche a sua mamma che era arrivata al finish e le era corsa incontro con un’incerata di quelle che andavano all’epoca, non le lucide fighe che ancora usano nelle linee “fashion” 🤭, no! Quelle opache che usavano da noi gente povera. Io pure l’avevo, blu.
Invece quella della Dentoni era verde, me la ricordo ancora e lei dentro bruttina con quella pelle del viso grinzosetta, la voce roca che ansimava e diceva che credeva di non farcela e invece ce l’aveva fatta eccome e si era aggiudicata la qualificazione alle provinciali ma io per giorni continuai a vedere la sua faccia spompata (incorniciata dal cappuccio dell’incerata, che la madre le aveva poi messo addosso sennò ti vien qualcosa) e la sua paura che non ce l’avrebbe fatta. E per un po’ non ci avevo dormito su.
All’idea che poteva morire.
Che poi dopo per me è come morta perché non l’ho vista mai più . Mai più. A Carrara sul muro di Via Verdi dell’Accademia qualcuno tempo fa ha scritto, Morire è non esser più visti.
Io ero strana già all’epoca.