Lui però, il regista, Hiner Saleem, curdo irakeno, classe 1964, ha la mano fermissima e una visione sobria e ironica dell’esistenza e dei suoi drammi che riesce a inebriare quanto basta a far dimenticare del limo quotidiano occidentale che obnubila la capacità di lucido pensiero. A rimettere le cose in prospettiva. Lui, il regista, ti insegna che la mancanza di ironia può esporre alle peggiori catastrofi. Per certi popoli come i Curdi, gli Ebrei o gli Armeni è un’arma insostituibile. Perché certi messaggi, per chi li manda, per chi li riceve, per chi li vive sulla propria pelle riescono semplicemente a salvarti la vita quando questa è esposta a continui pericoli.
Ora giustamente voi vorreste sapere di cosa parla il film. E io vi posso giusto dire che parla di amore e di miseria, di montagne, di alberi e melograni. Poi non so altro perché perdevo l’aereo per rientrare in Italia e la simpatica bibliotecaria della Public Library non si fidava a prestarmelo fino in Italia (però mi ha promesso la mail di suo cugino che fa il location manager per un regista che conosce Saleem), così ho visto solo i primi venti minuti, sto aspettando l’arrivo di Netflix in Italia (Yeah!!) poi vi aggiornerò. Per il momento lo potete guardare su Youtube ma in curdo e senza sottotitoli. Le immagini però ripagano e sono molto eloquenti e riescono a raccontare anche senza parole cosa ne è stato di certi angoli del mondo dopo la dipartita dei Sovietici.
Mio nonno diceva, Il nostro passato è triste;
il presente è catastrofico.
Per fortuna non abbiamo un futuro.
(Hiner Saleem)