In Europa ero venuto per la prima volta nel 1972 (…) All’epoca gli unici voli economici da New York erano diretti in Lussenburgo (…) vecchi aeroplani con le maschere dell’ossigeno che cadevano dai mobiletti sovrastanti, srotolandosi e rimanendo a penzoloni fino a quando non sopraggiungeva un’hostess che, munita di un martello e di una manciata di chiodi risistemava tutto; la porta della toilette continuava a rimbalzare restando aperta a meno di non bloccarla con un piede, (…) l’aereo era pieno di hippy, salvo i membri dell’equipaggio e i due quadri di un’azienda di aringhe affumicate in prima classe. Sembrava piuttosto di viaggiare su un pullman della Greyhound alla volta di un raduno di musica folk. I passeggeri non facevano che tirare fuori chitarre e mandolini e fiasche di Thunderbird, tutti presi a socializzare con la persona seduta accanto, cosa che lasciava chiaramente immaginare abbondanti dosi di sesso sfrenato su un susseguirsi di spiagge del Mediterraneo.
Nelle lunghe, eccitanti settimane precedenti la partenza, disteso sul letto con lo sguardo al soffitto, mi ero lasciato andare, lo confesso, a una serie di fantasie in cui generalmente mi ritrovavo seduto accanto a una pollastra procace, spedita dal padre contro la propria volontà all’Istituto per la Cura della Ninfomania di Losanna, la quale, in un punto imprecisato in mezzo all’Atlantico, si sarebbe rivolta a me per dire, Scusa, ti spiace se mi ti siedo un attimo sulla faccia?
Nella fattispecie come vicino di posto mi toccò un bietolone butterato con un paio di occhiali alla Buddy Hollly e un’ordinata sfilza di penne a sfera nell’astuccio di plastica che spuntavano dal taschino, e sull’astuccio era scritto: “DA GRUBER”: DI TUTTO DI PIU’. FLAGELLATION, OKLAOMA. SE QUI NON C’È PUOI FARE SENZA.
(Bill Bryson, Una città o l’altra)
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E cosa mangiano in Vietnam? (mia mamma).