Primo ottobre e sono in Vietnam. Mi sveglio col sole alto (lo intuisco, la camera non ha finestre), col cuore in pace e finalmente il battito regolare. Solo che non so che ora è: il telefonino dice che a casa è notte, mentre “a zonzo” è ora di pranzo (to roam in inglese traduce alla lettera girovagare), il pc dice la sua, per sicurezza chiedo a google. Sono le otto. Otto ore di sonno. Tutta una tirata. Dev’esserci un bel karma da queste parti.Stacco i fornellini, perlustro bagno e doccia, spruzzatina veloce, e scendo a fare colazione. L’alberghetto è alto alto e stretto, come molti edifici nella zona. La camera un po’ strizzatina ma carina e pulita. La Lonely Planet aveva ragione. Il menù è accattivante ma meglio star leggeri che ieri sera non ho saputo resistere, qualcuno mi ha trascinato dentro una bettola, un Bun Cha Restaurant. Stavo lì sulla soglia a tentennare, entro, non entro, cos’è, cosa non è, e il tipo mi ha afferrata e tirata dentro, e mi ha spinto a sedere a un tavolaccio. Poi inchini, do-re-mi-sol-la-si-do, lancia a destra e acchiappa a sinistra e mi si è presentato con una scodellona di plastica colma fino all’orlo e un mazzetto di cleenex, le bacchette si pescavano dentro cilindri azzurri sul tavolone. Sotto il tavolone, due cose: cassette di trash dove la gente buttava avanzi, cleenex usati eccetera, e la mia mano che irrorava Deet.
Ci sono questi momenti, veri e propri attimi in levare, nel viaggio, ma anche nella vita (a me succedono di più in viaggio), dove uno si fa cento buoni propositi, sta lì sulla soglia a cercare di decidere, vado o non vado, faccio o non faccio, poi non te l’aspetti arriva uno e ti tira dentro. E a quel punto ti tocca magna’. Puoi mica giocarti la faccia.
Prima di partire ho letto su una rivista che in vietnamita il verbo mangiare e il verbo amare condividono la stessa matrice, ma non trovo come sempre la fonte, quindi mi riservo di riconfermarlo. Vero o no, quella zuppa brodosa carica e ricca di aromi, carne, spezie, noodles mi ha fatto passare il caldo, la stanchezza, il mal di testa, l’angoscia delle zanzare e l’incognita dell’indomani (da Milano che continuavo a whatsuppare, skypare, messaggiare, telefonare a Trang, e lei zero).
Effetto benefico numero due: le rughe si sono attenuate. Senza sieri magici né contorno-occhi, ci pensa l’umidità. Capite perché da queste parti ne dimostrano sempre dieci di meno? La mia nuova Nikon in compenso appena messo a fuoco uscita dall’hotel ha avuto uno shock e si è appannata e non c’è stato verso che si riprendesse per un’ora.
Poi per esagerare come sempre mi sono lasciata vendere dei piccoli bomboloncini da una donnina per strada che trasudavano olio, e ho accettato il passaggio da un pedalatore di cyclo. Di notte, contromano, per le strade del cemtro storico. Non vi descrivo l’esperienza, perché se arriva all’orecchio di mia mamma è finita.
Concludendo, la colazione è stata leggera a base di sei tipi di frutta fra cui ho riconosciuto solo la papaya, caffè e latte con pane e burro Président e marmellatina Zuegg. Ryan, un eccezionale receptionist che parlava un buonissimo inglese voleva farmi fare lo street food tour, che la Lonely Planet pure raccomanda. Gli ho spiegato che ero un po’ worried per la mia ospite che non si faceva sentire da giorni, e che per il momento mi sarei accontentata di un giro veloce della Città Vecchia on the way to Hadong, nella New urban area, Room 3008- Building V1, Van Phu Victoria, dove spero Trang mi stia aspettando impaziente di fare la mia conoscenza.
E dunque via che si va, a bordo di un’altra voiture dalla marca imprecisata, l’omino ‘stavolta si chiama Vinh e ci ha una faccia che non promette niente di buono (e le unghie di pollice e mignolo lunghe sei centimetri). Ryan gli allunga l’indirizzo che avevo attaccato allo zaino, gli snocciola una energica litania di bi- ribin-bhun bàn, ci guardiamo a turno, uno annuisce all’altro, io annuisco pure, ma dopo aver stretto la mano a Ryan e averlo salutato, una cosa mi è chiara: l’omino non ha capito un cazzo di dove devo andare. Diciamo una preghierina al Buddha che non si sa mai.
In pratica il giro turistico del cazzo. Carrara centro storico. La faccia di tedeschi e giapponesi che guardano i cornicioni scrostati e le targhe e fanno ohh, le maestà lerce, i muri pisciati dai cani, che per la milionesima volta sentono dire dai locali che Michelangelo è salito lassù per andare a scegliere personalmente il marmo per i suoi capolavori (se gli chiedi quali, a parte la Pietà a malapena te li sanno dire, ma per loro fortuna i turisti sono più preparati e non lo chiedono mai). Ricordi imbalsamati di un tempo che non esiste più. Di un’economia che non esiste più. Di sistemi di lavorazione che non esistono più. Di un clima che non esiste più. Di un’eleganza che non esiste più. Li guardo a volte i turisti se mi trovo in strada a telefonare perché nel mio studio il cellulare non prende, li guardo e cerco di intuire cosa pensano, cosa racconteranno a casa di quella specie di ghost town che non ce la fa a stare al passo coi tempi. Mentre mi sento molto turista, mi dico che di sicuro il Vietnam sta soprattutto da un’altra parte.
Comunque non vi preoccupate, come vedete sto bene, grazie a tutti per i bei pensieri e per i complimenti!
Forse chi viaggia vuole solo dimostrare a se stesso di poter sopravvivere al viaggio…
Bruno N.
Cosa che potremo stabilire solo se e quando sarò rientrata alla base.
S.
brava, sei riuscita a trasportarci nel famoso e immagignifico”altrove”
”moderation” per definire l’immaginario e magnifico altrove?
Esatto!
🙂
S.
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