Il dio Pan

Agosto 2013 – on the way to Izmir

La guida a “Dove dormire negli aeroporti” che non esiste più ahimé (per questo ho tolto il link), annoverava quello di Roma Fiumicino fra i peggiori, dei quali è oltretutto il number one. L’importante è che non chiuda i battenti come il Galieo di Pisa. Ecco le circostanze in cui l’America mi manca. Alle partenze del McCarran di Las Vegas non solo si può comodamente dormire, si può farsi fare manicure, pedicure, diete su misura, colloqui di lavoro, mangiare e bere a sazietà, giocare alle slot machines, poker…Modulo H.24.

Ma torniamo di qua dall’Oceano per dare il benvenuto al mio terzo compagno di viaggio: Il dio Pan. Io sono senza ombra di dubbio una delle sue fedeli predilette, una di quelle cui non lesina mai di fare una visitina nei momenti più delicati dell’esistenza. Confesso che io ne farei volentieri a meno.

Il dio del Panico è detto così perché si adirava spesso con chi lo disturbava emettendo urla terrificanti, provocando così una  incontrollata paura. Di lui si narra che fu visto fuggire per la paura da  lui stesso provocata. Ma il mito più famoso legato a questa caratteristica è la titanomachia durante la quale Pan salva gli Olimpi  emettendo un urlo e facendo fuggire Delfine, che a differenza del  gentil nome era un essere metà serpente e metà donna a cui  Tifone aveva dato l’incarico di sorvegliare i tendini recisi di  Zeus all’atto della ribellione dei Titani contro gli dei. Viveva nella Cilicia in una grotta, fino a quando Ermes con l’aiuto del dio Pan riuscirono ad aggirarlo per rubare i tendini divini. Ma vai da sola?” ha chiesto anche stavolta mia mamma. Sì, ma vedrai che qualche dio veglierà su di me, le ho risposto.. (Ripeto, io di certe compagnie farei volentieri a meno.).

 * * * * *

“Le crisi venivano, arrivavano dalla bassa natura delle cose, dallo sporco delle cose, dalla sozzura e dalla vergogna, dalla colpa, dalle magre illusioni tradite – arrivavano e mi schiantavano come da un’altezza siderale. Cascavo giù e – occhi aperti sul vuoto – mi preparavo a morire. E morivo. Una morte di un’ora, di un’ora e mezza. Poi tornavo inutilmente a vivere. La lunga morte passeggera che era il panico durava più o meno quanto un film. Una o due volte al giorno. Senza  preavviso, altrimenti che paura sarebbe? Giorno, notte, prime luci, ultimi  bagliori – era lo stesso. Non potevo prevedere il momento. Però sapevo che sarebbe arrivato.
[…] Cosa  facevo, come le contrastavo?
Me le sudavo a letto. Me le stringevo tra le mani con le coperte. Me le ingoiavo incandescenti giú per l’esofago e lo stomaco e la pancia. Me le tremavo. Me le  piangevo. Esplodevano simili a temporali estivi, poi si allontanavano – attorno a me l’odore della polvere.
Ridevo di  me. Piangevo per me.”
 (Christian Frascella, Il panico quotidiano)

 

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