28 Febbraio 2014

Il mio nuovo libro in Ebook!

 


Di scrittori borghesi sono piene le biblioteche e le librerie. Vincitori di premi, aspiranti vincitori di premi, columnist dei grandi quotidiani, con cattedre piccole, medie e grandi, con i loro fastidiosi dolori morali, le cupe esitazioni, le vili certezze, i piedi al caldo, la testa nei valori. Gli scrittori borghesi, quando non sono grandi, si distinguono per la pulizia, l’ordine, la ragionevolezza, un po’ come gli interni delle soap opera allestiti con quella ricchezza da Ikea di lusso, i giardini pettinati, le piscine piastrellate, le donne troppo bionde o troppo more o troppo giovani. Ma esistono gli scrittori non borghesi? O sono l’ennesima invenzione degli scrittori borghesi? Simili pensieri vengono leggendo Sonia Pendola, il suo blog, le sue mail, e ora la sua narrazione che non si sa bene come definire, ma immagino sia meglio lasciarla fluttuare nel grande mare delle letteratura, senza bandiere o particolari segni di riconoscimento. Una nave pirata. Perché Sonia, che viene da una terra di bizzarri, scontrosi, stralunati, impertinenti, permalosi, perfidi e geniali, è una instancabile corsara che segue rotte eccentriche sia sul mappamondo che nella vita, suppongo, e non parliamo della scrittura. Prende il vento, va all’arrembaggio, saccheggia, depreda, con la forza e a tratti la violenza degli innocenti, che ancora obbediscono alle oscure leggi della natura.

Di cosa parla Help me!? Sarebbe una domanda sciocca, buona per gli scrittori convenzionali, per i costruttori di trame da leggere in treno o sulla sedia a sdraio, di armoniosi e decenti intrattenimenti. Sarebbe come chiedere ad Antonio Ligabue il tratto di Raffaello, ad Alda Merini la composta levigatezza di Montale. Forse il genere meno lontano è quello del diario, di un diario non fatto di cronaca, però, come gli appunti di Campana, visionari e incuranti, non di rado, della sintassi, sia quella grammaticale che quella delle emozioni. Una confessione picaresca, capace di mordersi là dove sfiora o si avvicina pericolosamente ai buoni sentimenti, alle buone maniere. Un sismografo dei minimi smottamenti dell’anima, che tradotti sulla carta (come nelle strisce dei sismografi appunto), si amplificano, diventano mostruose catene di vette e di abissi, forse anche figure di Rorschach, mostruose e sublimi simmetrie. E il lettore s’imbatte in un’America sgangherata, troppo accecante, troppo fuori misura per contenere la passione autentica del viaggiatore che non è ancora decaduto nella grottesca imitazione del turista, e dunque viaggia soprattutto in se stesso. Un diario di vita pulsante che si ritrova, tra uno sbandamento e un altro, al cospetto di un vero criminale, un po’ cartone animato, un po’ (Rocky!) film maledetto, magari dei fratelli Coen. Ma le pagine più trascinanti sono quelle, manco a dirlo, in cui l’io narrante, che mai e poi mai verrebbe in mente di identificare con un personaggio, scopre le proprie ossessioni (e il punto più conturbante è quello in cui, guardandosi allo specchio, non trova il suo volto, come se camminando in una giornata di sole non vedessimo più la nostra ombra), rivelando con ingenuità e un pizzico di astuzia creativa la propria ansia di regressione: gli Alieni che invadono la mente, non quelli però partoriti dalla fantasia febbrile di King, ma quelli più domestici della serie UFO, una ironica risalita dagli inferi televisivi.

Queste pagine, che rifiutano ogni forma di perbenismo letterario (e sono giustamente rifiutate dal mondo letterario, come Sonia anticipa nella figura del Professore, il critico che arcua le sopracciglia, una specie di grillo parlante accademico), restano nella mente e nel cuore del lettore come una scheggia. Scalfiscono la sensibilità al punto che si vorrebbe conoscere chi le ha scritte, non senza un po’ di timore. E non è questo il risultato più genuino di ogni lavoro artistico, il moto verso l’altro che ci ha teso la mano e si è messo a nudo? Lo scrittore corsaro inizia tante storie, ci invita sulla soglia della sua affabulazione, poi si ritrae, scompare dietro le quinte, forse, sembra dirci, ve la racconto un’altra volta, anche perché: “Non si scrive per seppellire, a quello bastavano i becchini”, e a lui (lei) preme la vita, quel frenetico agitarsi, gesticolare di là dal vetro che, in fondo, non è che un esitante grido d’amore.

(Dalla prefazione di Bruno Nacci)

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