In viaggio, non accettare passaggi da sconosciuti.

on-the-road-logo-x-bianco_54_3093Finalmente mi ha riscritto Trang che quando non si fa sentire per un po’ mi preoccupo e faccio andare una serie di fotogrammi dove mi trovo al No Bai International Airport di Hanoi che chiamo un numero che non esiste, te l’avevo detto che non ti dovevi fidare e ora cosa fai? Dove vai? A chi ti rivolgi? (Cùa tôi me, “mia madre” in vietnamita). Se vi devo dire, una delle cose che mi angoscia di più è la scelta del taxi. Trang detto no bus, only for locals, taxi better. Ma io coi tassisti ci casco sempre, hanno sempre la meglio su di me. Su quelli vietnamiti mi han fatto tutti una capa tanta: che truccano il tassametro, sbagliano apposta strada, ti portano all’albergo che decidono loro, non parlano inglese…

 

Rimasi un ‘ora e un quaranta minuti sul ciglio della strada con il pollice fuori, a guardare con piccole fitte di disperazione le macchine che sfrecciavano e il percorso del sole verso l’orizzonte. Stavo quasi per lasciar perdere – e fare cosa? Boh! – quando accostò una Due Cavalli scassata.
Trascinai lo zaino fino alla macchina, a bordo della quale trovai una giovane coppia che stava litigando. per un attimo pensai che non si fossero fermati per me, che l’uomo avesse accostato per prendere a schiaffi la moglie, avendo appreso che gli europei erano avvezzi a questo genere di cose dai film con Jean-Paul Belmondo trasmessi dalla rete pubblica; ma poi la donna scese, mi fissò con sguardo glaciale e si fece di lato per farmi arrampicare a bordo, dove presi posto sul sedile posteriore, le ginocchia agganciate alle orecchie in mezzo a una montagna di scatole di scarpe. L’uomo alla guida era molto cordiale. parlava un buon inglese, e strillando sopra il forte ronzio di quella specie di tagliaerba, mi informò che faceva il rappresentante di scarpe mentre la moglie lavorava in una banca del Lussemburgo, e che vivevano proprio sul confine, a Arlon. Continuava a voltarsi indietro per sistemare gli oggetti sul sedile posteriore in modo da farmi più spazio, scaraventando scatole di scarpe contro il parabrezza posteriore, cosa di cui avrei volentieri fatto a meno dato che il più delle volte mi rimbalzavano in testa, e al contempo teneva il volante con una mano sola lanciato ai cento all’ora nel traffico intenso.
Ogni due o tre secondi la moglie cacciava un urlo, allorquando il retro di un camion appariva all’improvviso oscurando il parabrezza, e a quel punto lui tornava a concentrarsi per un secondo o due sulla carreggiata, prima di tornare nuovamente a preoccuparsi che io stessi comodo.
Non mi sono mai sentito così sicuro di dover morire. Il tipo guidava come se fossimo in una sala giochi. La carreggiata era una roba a tre corsie – altra cosa che non avevo mai visto prima – con due opposti sensi di marcia e una corsia centrale che serviva per il sorpasso da entrambi i lati. Il mio nuovo amico non sembrava averne pienamente afferrato il concetto. Scattava nel mezzo e pareva sinceramente stupito di trovarsi a tu per tu con un autoarticolato di quaranta tonnellate lanciato verso di noi, stile cartone animato di Willy il Coyote. Sterzava all’ultimissimo minuto, dopodiché cacciava la testa fuori dal finestrino e imprecava pesantemente contro il conducente di turno, per poi tornare a farsi redarguire da me e dalla sua signora al ripresentarsi del disastro successivo. Appresi in seguito che il Lussemburgo detiene il più alto tasso di incidenti stradali in Europa, cosa che non mi sorprese minimamente.

(Bill Bryson, Una città o l’altra, Guanda Edizioni)

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