In Mediterraneo di Gabriele Salvatores c’è una scena che mostravo sempre ai miei studenti stranieri a mo’ di esempio sulla capacità di adattamento di noi Italiani all’estero. Claudio Bisio, alias Roventa, trova da ridire sul caffe’ greco che è come bere la sabbia. Il sergente Lo Russo gli ribatte che è buonissimo, basta avere un po’ di pazienza e saper aspettare che la polvere si depositi sul fondo.
Roventa, ormai saturo di nostalgia di casa, non e’ d’accordo. “Cosa ci sara’ mai da aspettare? Uno entra in un bar, ordina un caffe’, beve, paga e se ne va.”
Anche allo Starbuck Coffee ti devi armare di pazienza, ma il risultato non delude mai. Ci han voglia di dire che la Corporation che gli sta dietro sfrutta i dipendenti e i coltivatori peruviani e guatemaltechi, in mancanza di una Bialetti, ci si deve assoggettare.
Quando il set della mia love story col Gringo si svolgeva sulla East Coast era una frustrazione continua. Perché su di là sono molto più progressisti e socialmente impegnati nella lotta all’imperialismo neoliberista di casa propria che i commessi non ci hanno mai pazienza. Però mi è servito a fare pratica per orientarmi sulla marea di gusti e stili in cui ti macinano il caffè, te lo mescolano, te lo montano, aromatizzano e spolverizzano con un’ira di dio di sapori e fragranze di ogni angolo del globo. C’è il frappuccino che è un incrocio fra il cappuccino e il frappè, viene in dosi da un quarto di litro, mezzo e super. Arrivi e ti accolgono con il consueto “Hi, how are you doing today? Ma si capisce che del tuo stato di salute se ne infischiano e mentalmente ti stanno augurando di strozzarti col beverone che stai accingendoti a ordinare, brutto sfruttatore reazionario che non sei altro.
What can I serve you today?”
Le prime volte mormoravo timidamente: Un caffè…
“Sì, ma COME, QUANTO, di DOVE e soprattutto con QUANTI cristiani sulla coscienza lo vuoi?”
Poi ti indicavano il tabellone gigante e luminescente alle loro spalle, e a quel punto partiva il cronometro: – 5…4… 3… 2…1…
I primi tempi terrorizzata dicevo “passo”, mi mettevo di lato e restavo ad osservare incantata, desiderosa di diventare anch’io un’ordinatrice coi fiocchi di Starbuck Coffee.
Praticare il seguente dialogo:
“Hi, how are you doing today? What can I make for you?”
“Yes, I’d like a “grande latte” (pronuncia: grandi latté), “no sugar, double cream, cinnamon from Chile e uno shot di tequila a parte”.
E se la risposta ha impiegato meno di cinque secondi hai il muffin in regalo. Anche se il premio più ambito resta quello di sentire il proprio nome urlato dall’altoparlante: Sonia! Sonia! ..? Il tuo caffè è pronto, vai a ritirarlo entro 7 secondi o te lo buttiamo nel cesso!
Io a tanto non ci sono mai arrivata ma ho fatto parecchi progressi da allora. E ho anche imparato a personalizzarmi il latté (ché io se non personalizzo vivo male). Dopo un attento studio alla procedura dietro il bancone ho scoperto che il grande si compone di mezzo litro di latte e due shot di caffè. Comodo è comodo, perché dura fino al weekend successivo così ti levi il pensiero e fai la scorta in una volta sola. Però non era abbastanza forte e così mi sono ingegnata e ora prendo il “tall”, di una misura in meno, e mi ci faccio fare due shot dentro. Senza sugar, senza cinnamon e con poca schiuma. Please. Le prime volte dicevo foam (i miei studenti mi perdonino), che in inglese si riferisce a quella marina o da barba, e un paio di volte mi hanno squalificata, malgrado i miei tentativi di mimarne il significato.
“Foam? Sorry, we don’t sell that. Provi dal barbiere.”