L’avevo conosciuta in un hotel a quattro stelle, lo Hafez di Shiraz, di quelli che io e i miei due compagni di viaggio, manco avvicinarsi. Il nostro budget era una media di dieci dollari al dì, che includevano pasti, alloggio e qualche extra.
Ci ero andata per il WIFI. Entrandoci ero come tornata ai bei vecchi tempi di Las Vegas (di quando pensavo in dollari), anche se il paragone non si può nemmeno tentare. Parliamoci chiaro: in fatto di sciccherie e confort gli americani non si battono. Naa. Specie quelli in mezzo al deserto del Mohave.
Munir, suocera e marito avevano preso in gestione dal governo il piano del coffee net (l’Internet cafè), lei dava le password, il marito assisteva chi aveva problemi (tipo c’era un’italiana mi pare di Carrara, che veniva fuori sempre con qualche richiesta strana…), la suocera serviva il tè. Mi ci ero rivolta per chiedere di un beauty salon, volevo provare la ceretta Pandhy’s, come nel film Caramel, quella allo zucchero. Mi dice, aspetta che vado a sentire, poi torna, occhei si può fare. E mi porta a conoscere la nuora.
La question successiva è stata, Dove? Albergo da me?! Io titubo un po’, perché nel nostro già ci giravano tipi strani, ci avevano informati che se scoprivano che prendevi la stanza per uno e poi ci aggiungevi un compagno o compagna, passavi dei guai, e non mi pareva il caso, vista la latitudine in oggetto. Quindi, noway! le dico, non si fa. E lei allora si consulta un po’ con la suocera, un po’ col marito, torna e propone casa sua.
Casa tua?
Casa mia!
Occhei, mi casa, su casa, ci accordiamo sul prezzo (mezz’ora di lanci e rilanci e ribassi) e via che si parte.
Inshallah!
Perché essere lanciati in taxi lungo dei vialoni della periferia iraniana dove a ogni chilometro appariva dall’alto la faccia di qualche ayatollah incazzato e tristo, che chissà quali accidenti ti augurava a te, O frivola femmina europea che ti fai la ceretta alla vigilia del rimpatrio, perché mai non puoi aspettare il ritorno in Italia, eh? Cosa – ovvero CHI? – hai di tanto urgente e irrevocabile che ti attende all’aeroporto di Milano Malpensa, eh? Rispondi scostumata!
La lingua straniera in momenti come questo si trasforma nella lingua nemica dei barbaroi. Ovunque. A qualunque latitudine. I due sembravano parlottare e ordire chissà quale piano, non arrivavamo mai, non riconoscevo niente né nessuno, il minimo che ti aspetti è che ti derubino, sgozzino, soffochino, e poi ti lancino giù per una scarpata… Il taxi, cioè i taxi, perché ne abbiamo cambiati tre (per tre complici in tutto!) per coprire diciassette chilometri, l’ho visto sulla cartina, per arrivare a questo enorme caseggiato stile Zen di Palermo (o P.E.P. di Avenza se preferite), con vari alberi di svariati piani, al dodicesimo di uno dei quali la mia amica Munir mi ha accolto in casa sua per spiumarmi.
Massacro a parte (la mia estetista ride ancora), è stata una esperienza emozionante. Nella ceretta c’era di tutto – e sottolineo di tutto! – tranne che lo zucchero. Munir l’ha scaldata a bagnomaria, poi dalla cucina correva in sala dove io l’aspettavo distesa per terra su un bel tappeto che si sarebbe supposto persiano. Ma la cosa più ilare era che per “allietarmi” la tortura, aveva acceso la TV e messo su un canale iraniano dove un pittore insegnava in diretta a dipingere montagne spruzzate di neve e abeti bicromatici. Voglio dire, l’ultima cosa a cui uno associa l’Iran sono le stazioni sciistiche, la neve, i paesaggi alpini… E intanto che io prendevo mentalmente appunti sulle diverse specie di pini silvestri e loro rispettive infinite varietà di sfumature di verde, lei strappava coi denti un telone di lino per farne. prima scampoloni, poi quadrati e infine striscioline per rimuovere la cera. Fra uno strappo e l’altro offriva cioccolatini, racconti e confidenze anche piccanti sulla sua vita coniugale, (interessatissima alla mia, sulla quale le ho mimato di stendere un tappeto persiano pietoso), sciroppo di ciliegia fatto in casa, anguria… E la sua doccia, la sua crema emolliente, la sua camera da letto. La sua amicizia.