On the Road (Again?!) Divagazioni sul New Mexico

 

Novembre 2010. 

Il Rio Grande che passa per Albuquerque non era grande per niente, sì e no quanto il Carrione quando è in piena o il Magra in estate. Albuqerque sta dentro una conca, come Las Vegas. Le case di adobe erano belle ma le montagne intorno avevano l’aria bigia e sporca, e non erano colorate o a balze come quelle della Sierra Nevada. Le corsie intasate, l’aria irrespirabile di prima mattina, nun chiagne Maddalena…

All’Old Historic Town le donne anziane avevano tutte le trecce. Bianche. Al sud le gringas mature i capelli spesso non se li tingono, e sono le più belle, le più fiere. Sobrie signore che parlavano degli Indiani come di bambini monelli che sanno essere adorabili, a volte. Nella piazzetta a ridosso della chiesa, su una targa di marmo bianco, l’oppressore gli ha chiesto scusa. La parola “selvaggi” è stata cancellata. C’è rimasto il solco bianco. Nel linguaggio televisivo suonerebbe come un beep. “Agli eroi caduti in guerra contro gli indiani… beeep… nel territorio del Nuovo Messico”.
Ore undici della magnana e sotto l’antico porticato ci si prepara chi a danzare, chi a suonare, a esporre i propri manufatti, piume, canti, wampoon, indian pueblo, mescolanze che mi confondono. Tradizioni, radici, artigianato, poi tutti a rivendicare lontane origini spagnole, e alla fine non capisci più chi c’era prima. Chi ha subito più perdite. Chi ci ha più perso, speso, guadagnato. I negozi etnicamente impeccabili e addobbati come sempre – mese che vai stagione comprereccia che trovi; contenitori messicani in territiorio americano che espongono arte indiana, “locale”. Non si riusciva a fare dieci passi senza farsi tentare da qualche sacra reliquia. C’era anche la cara Frida. Su una scatoletta di fiammiferi. Piena. Meno male ho resistito. La donna che amo al di sopra di tutte mi ha strizzato l’occhio, cosa mi compri a fare? Anche volendo i fiammiferi non ti servono più. Quando vedo e penso e tocco con mano questa volgarizzazione dell’arte, questo consumismo travestito da missione, mi si annuvola tutto. Per dirla come non si potrebbe, mi incazzo. Con me stessa. E con i ricordini-reliquia che sempre porto a casa per me o per i miei cari, i quali solo così potranno ricordarsi di me, penetrare nella mia realtà, nel mio vagabondare altrove.
A sinistra è apparso un piccolo canyon, San Miguel Pueblo Exit 3/4 di miglio, ma più ci pensavo, più mi veniva in mente una sola spiegazione: che quei monelli qua l’han presa nello stoppino due volte: prima dagli Spagnoli, poi dagli Americani. E ora dai Messicani. Che magari son Cinesi travestiti.

Santa Fé, San José, e di nuovo le praterie, mandrie di bufali, cavalli sul bordo di un creek, Yucca, sole, poi le montagne si son fatte di lato per lasciar passare el Pueblo per eccellenza: quello a stelle e strisce. Welcome to Las Vegas! In compenso al Microtel in centro eran tutti Indiani: tutti brutti, grassi e di Geova. Decorazioni in plastica, melamnina, finto tutto, in puro stile kitch-atzeco.
Quando vivevo nell’originale non c’era verso di incontrarne uno. Tutti quelli a cui chiedevo, Chi? rispondevano, quelli che abitavano qua tanti secoli fa…? Mah, si sono spostati al sud, dirigono i casinò… (convinzione molto diffusa anche dalle nostre parti in Italia). A Carrara, ad esempio, gli Indiani d’America erano sempre dove meno te li aspetteresti, in ogni occasione, a qualunque sagra o comizio o incontro del Puntorosso, ai primi di maggio o alle feste dell’Unità, il marmo e i suoi sapori, la Fiera Tuttocasa… Nel Mohave ogni volta che domandavo ottenevo risposte vaghe. Che si erano spostati a nord, giù di qua, su di là, o che li avevano finiti e li dovavano riordinare. All’arrivo del fidanzato di Pocahontas, nel Nord si stima ce ne fossero 25 milioni. Ma quando ero piccola io della bella indigena e della sua funesta storia d’amore con l’inglese stronzo non sapeva niente nessuno. Il mio sussidiario non faceva menzione al Mayflower né ai Padri Pellegrini, i Pellerossa erano quelli che davano del filo da torcere a John Wayne. Indiani e cowboy. Punto. Degli Inuit, degli Yuit e degli Aleutini e dei loro tentativi di sopravvivenza fra i ghiacci della zona artica si sapeva poco e niente. Giusto qualche accenno alle foreste del Canada e agli Irochesi. Le jeep non esistevano, e Comanche, Cheyenne, Cherokee non intasavano ancora le corsie delle Interstate, tutt’al più disturbavano la quiete pubblica delle praterie. Sioux e Arapaho erano bravi cacciatori. Temerari quali erano, se ne andavano a zonzo per le Grandi Pianure, dal Canada Centrale fino al Messico e dal Midwest alle Montagne Rocciose. Gente tosta. Non si facevano certo spaventare dall’ampiezza del territorio che percorrevano in lungo e in largo senza ausilio di cartine né GPS. Con un solo mezzo di trasporto con contachilometri di serie. I piedi. Più erano black, maggiori le miglia percorse. Dei Sioux va aggiunto che erano anche invidiabili danzatori. Gli inventori della “Ghost Dance”. Piacque a tal punto all’uomo bianco che, dopo numerosi tentativi di imitazione andati a male, decise di sterminarli tutti e di fargli passare la voglia di ballare. 1890. Massacro di Wounded Knee. Neanche di questo faceva menzione il mio sussidiario. Dell’infrangimento definitivo di un sogno: le ultime speranze di riscatto degli Indiani del Nord America.

Stessa sorte toccò ai Seminole, che prediligendo territori più umidi, si erano stanziati nel Sud-Est, a Nord del Golfo del Messico, dalle coste dell’Atlantico al Texas Centrale. L’area era un tempo coperta da foreste di pini, popolata da numerosi cervidi che costituivano la fonte di sostentamento di una popolazione di abili cacciatori. E che dire della loro bravura a arare. Dal 3000 a.C. Perché gli indiani d’America non passavano il tempo a tirare frecce e a abbaiare al cielo come mi avevano detto da piccola. Questi in particolare avevano sudato tanto, che nel XV secolo erano riusciti a portare a termine la costruzione di vere e proprie città. Altro che tende coniche. I teepee pare vennero dopo. Con l’arrivo degli europei. A poco a poco. Un’epidemia oggi, un morbo domani… Enhanced enriched and purified. Come l’acqua in bottiglia e la farina di grano. Come ti anniento una fiorente civiltà. Ma i più tosti erano gli Shoshone. Noti per aver preso la batosta dal colonnello Patrick Edward Connor nella triste battaglia del Bear River. Malgrado tutto non si arresero mai, e da quel lontano, tragico 29 gennaio 1863 sono ancora lì che rivendicano il diritto alla loro terra. Ce la restituite o no? We will, we will, gli Americani continuano a fare promesse, l’ultima è dell’amministrazione di Obama, Health Care in cambio delle terre sottratte, dei tanti Medicine Men uccisi, we will, we can, e loro non demordono. Tough people. Gente tosta, i cui antenati si erano contraddistinti dalle altre popolazioni per aver scelto uno dei set più estremi conquistandosi un posto d’onore non solo nella storia, ma anche nella fiction di ogni tempo. E forse qualche medaglia al valore, per il coraggio dimostrato di saper vivere ai bordi di una Valle della morte, campando di bacche, insetti, qualche pannocchia di granturco quando erano fortunati e uno e due roditori a Pasqua e a Natale. In una delle regioni più aride e squallide di tutta l’America Settentrionale. All’inferno. Dove le temperature oscillano da sotto lo zero a sopra i 40. Dove la vegetazione è magra e stentata. Dove è impossibile qualsiasi forma di agricoltura. Giù giù, in basso. Nella polvere. Io ci ho vissuto due anni; loro svariati secoli. Eppure, ogni volta che chiedevo…

 

 

Al casinò del Microtel di Las Vegas, Nuovo Messico, dentro eran tutti Indiani, tutti grassi, bassi, brutti, tutto fumo, alcool, visi persi, pellerossa. Nun chiagne Maddalena… Mi son frugata in tasca in cerca dell’accendino, poi mi son ricordata che avevo smesso di fumare. Da un anno. Proprio quel giorno.

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