On The Road (Again?!) – The Hoover Dam

 In un giorno imprecisato di Ottobre del 2010,
in viaggio verso il Golfo del Messico

Tanto tempo fa uno scrittore si offrì di farmi da ponte per un buon editore. Ero al settimo cielo. In più io sono una patita dei ponti, li adoro. Li adoro per come riescono ad annullare le distanze, i divari, le incomprensioni, i conflitti e le separazioni. Un ponte ti porta di là, verso una terra sconosciuta; favorisce il passaggio verso il desiderio, dà la spinta verso l’oltre, verso l’altro. Un ponte, come il dialogo, consente la comunicazione e la possibilità di incontro tra sponde differenti e opposte. Quello scrittore si è poi rivelato un inganno. Come il ponte sulla Hoover Dam. L’ennesimo. Per molti un’ennesima stella, e invece no. Perché un vero ponte dovrebbe favorire il passaggio senza ostacolare né ostruire il fluire di ciò che in mezzo scorre.
Manca ancora qualche ora al tramonto, Sin City e le sue mille oasi verdeggianti si rimpiccioliscono alle mie spalle, intrappolate, come i rimpianti, da ammassi rossastri e arsi che alla fine la accerchiano fino a farla sparire. Attraversando Boulder City si capisce dove città come Las Vegas nascondono il proprio sudicio: sotto l’ultimo angolo di tappeto erboso. Qui vanno a finire gli “avanzi”, coloro che non ce la fanno a pagarsi piscine scenic, fontane e altre amenità. Sono i lontani parenti dei costruttori della diga. Un tempo si chiamava Ragtown, città stracciona che oggi prende il nome da un canyon defunto. Niente roulette, solo roulotte, un grosso casinò un po’ sbilenco e scrostato di quarta categoria con annesso motel sbiadito dal tempo. You play, we pay! giusto per dare l’illusione che prima o poi anche qua i sogni si potrebbero avverare. Il McDonald c’è, e anche il KFC, la Pizza Hut, la Pizza Hot e Yippi-ya-yay! E il finesettimana: gita al lago. Eccolo che appare all’orizzonte. The Lake. Centoottanta chilometri quadrati di acqua immota collegata con Las Vegas da una lunga placenta a due cordoni. Quello in entrata le serve per succhiare acqua con cui alimentare le oasi scenografiche e super tecnologiche, i campi da golf, i ruscelletti panoramici e le piscine sabbiose dei mille casinò; quella in uscita per rimandare indietro tonnellate di rifiuti liquidi, pesticidi e altre schifezze digerite dalle migliaia di turisti che ogni settimana la prendono d’assalto, e dopo essersi fatti prosciugare le tasche, appendono il cappello al chiodo, si infilano la muta per andare a scoprire i segreti del lago. Vieni a vedere cosa c’è sotto! recitano i depliant. Che io non oso immaginare, anche perché dato che non piove mai la zuppa è sempre la stessa, le poche piogge che ci sono cadute hanno ancora i resti radioattivi degli anni Settanta dopo gli scoppi nucleari che per anni hanno sbatacchiato e rimescolato il deserto del Mohave. Suona strano ma è da qua che proviene l’acqua con cui si annaffiano giardini, aiuole e lungoviali, parchi e marciapiedi dove nessuno cammina ma ognuno si limita ad affumicare con il gasolio del proprio pick-up.
A mano a mano che ci avviciniamo al confine con l’Arizona il paesaggio si fa molto lunare, c’è un’atmosfera surreale da Day After, vegetazione zero, sembra di essere su Saturno. Hoover Dam 5 miglia. Alla mia destra un enorme lotto da poco trasformato in campo da golf con vista sul lago (alla partenza) e su Las Vegas (al traguardo). Palme e cipressi mostrano segni di affaticamento causati dal recente trapianto ma grazie a una bella irrorata di alfa-alfa sono arrivati anche loro puntuali all’inaugurazione. 
Avrei di gran lunga preferito che il mio passaggio da Ovest a Est si fosse compiuto su qualcosa che non si chiamasse Mike O’Callaghan – Pat Tillman Memorial Bridge. Già il nome suona come una giaculatoria. Un inno a stelle e strisce. A un senatore democratico scomparso di recente, uno dei tanti giovanotti che negli anni Quranta-Cinquanta mentivano sull’età per potersi arruolare nei Marines. Dai Marines all’Esercito e poi nella Guerra di Corea che gli sarebbe costata una gamba ma non poche stelle, l’ultima delle quali, postuma, questo ponte di 490 metri del costo di centoquattordici milioni di dollari. The Hoover Dam Bypass. Nome molto più onesto e sincero. Qualcosa di artificiale che fa pensare a un cuore che batte a stento. Quello del Colorado che qui ha arrestato la sua corsa. L’articolo è di due settimane fa e celebrando il grande evento dell’inaugurazione del ponte ci ricorda le misure della prodigiosa diga ad arco che l’ha partorito, fra le più grandi al mondo: 221 m di altezza per 379 di lunghezza. Il genere, si dice, che sfrutta gli stessi principi strutturali del ponte ad arco, con la concavità rivolta verso valle e la maggior parte del carico d’acqua distribuito verso le pareti laterali di una stretta valle o di un canyon. In parole più semplici (e oneste) prendete una vena e iniettateci una bella dose di sclerosante, ovvero, nel caso del Colorado, di cemento: per la precisione cinque milioni di metri quadrati di cemento. Per anni. Non stop. Una bella trombosi, non c’è che dire. Il ponte, la sua creatura, serve oggi a collegare in modo più sicuro e veloce il Nevada con l’Arizona lungo la Route 93. È il primo ad arco in cemento armato composito mai costruito negli USA, il più lungo dell’Emisfero Occidentale, il secondo più alto della nazione, concluso senza sforare il budget stanziato.


Qualunque cosa sia, resta un inganno. Per i pesci, i camosci, i turisti… E per Pat Tillman e i suoi tifosi e lettori. Una storia triste la sua, giovane atleta la cui corsa pure si è fermata troppo presto. La settimana prossima sarebbe stato il suo compleanno: Sei novembre del 1976. Un ragazzone americano come tanti. Giocatore di football professionista a cui gli onori del gioco non erano bastati, per questo come il senatore O’ Callaghan aveva scelto di difendere il suo paese dall’ennesimo nemico. Decisione che gli sarebbe costata la vita fra le montagne afghane, ma forse non l’onore in patria, se il suo stesso governo non ne avesse voluto strumentalizzare e falsificare il gesto. Questo i turisti non lo sanno. Guardano in basso e scattano foto al vero artista che laggiù ora scorre mansueto. Si è fatto piccolo piccolo, giusto un rigagnolo, un torello preso in trappola. La sua maratona coloratissima si è trasformata in una penosa corsa agli ostacoli. Gliene hanno piazzati a decine, e questo il più grosso di tutti. Io guardo il cielo color porpora e penso a Pat, lo vedo in fin di vita, ucciso dai suoi stessi compagni. L’inganno per fortuna è stato smascherato, i veri colpevoli sono venuti alla luce. Anche l’inutilità di tanto cemento armato prima o poi rivelerà la sua insensata vanità.

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