L’ultimo frammento di America che la mia retina ha registrato dieci anni circa fa è lo sguardo bovino di un’addetta delle pulizie del JFK di New York, grassa da morire come solo in USA la gente ci riesce. Tiene in mano un complicatissimo aggeggio che da noi si chiama struscino, mentre lì è parte di un complesso meccanismo che si usa anche per le pulizie domestiche. L’aggettivo l’ho rubato a Un uomo solo, dove uno spettacolare Colin Firth così descrive lo sguardo della gente d’America: bovino. Che ti guardano e ti passano oltre. È uno degli aspetti più sgradevoli ai quali non sono mai riuscita ad abituarmi (oltre al caldo eccessivo in inverno e il gelo in estate). E se gli sguardi fossero corde lanciate verso l’altro, il quale a volte la afferra e fa qualche passo insieme a te, guardato, legato, in metropolitana, in fila al check in, alla cassa, bé, lì non lanciava mai niente nessuno.
L’addetta mi ha guardata poi oltrepassata, non capiva – né le fregava – perché mai mi nascondevo dietro il pilastro attorno al quale lei stava portando a termine l’operazione “detersione zona circostante emisfero anteriore”, in attesa di ordini ulteriori, passo!…; mi piacerebbe dirglielo, ma noto che anche l’ultimo passeggero si è imbarcato, è tempo di entrare in azione.
Il film di Tom Ford penetra a fondo nel tessuto storico e culturale americano ma ce n’è un altro di qualche anno fa, una piccola gemma di intelligente comicità: uno sguardo, una corda di notevole spessore sul perché del successo e insuccesso di chi tenta e ha tentato la conquista del Nuovo Mondo. Si intitola Big Night e me ne servirò per raccontare – a chi interessa – il perché della mia fuga a est. Del mio ritorno a casa. È la storia di due fratelli che dall’Abruzzo emigrano nel New Jersey per tentare di ricreare una piccola isola gastronomica, un ristorante italiano DOC, dove il fratello maggiore, Primo, fa il cuoco, ovvero splendide creazioni di succulenta e verace italianità; mentre Secondo ne gestisce l’aspetto finanziario, con spole in banca a tentare di ottenere proroghe e prestiti da bancari spazientiti. Due fratelli diversi ma complementari, figli della stessa Madre Patria. Primo è tanto intransigente e fedele ai suoi principi filosofico-culinari, quanto Secondo li mette in discussione e non esita a tradirli un po’, perché nella vita si devono accettare i compromessi, e il solo modo di fare fortuna in un altro paese è di adattarsi al gusto di chi ti ospita, non di imporre il tuo.
Ma si può tradire un risotto al profumo di mare affiancandogli un contorno di spaghetti e polpette al sugo?
Nel mio caso la domanda era: si possono mandar giù quaranta minuti di anticamera all’Ufficio Rilevazione Impronte Digitali più altri trenta al Distaccamento Fedine Penali per poter fare supplenze di arte culinaria in un asilo? Sovrapporre i volti di delinquenti di strada e agenti spallati a quelli di Piaget, di Rousseau, della Montessori?
Muuuh…
Che fine fa la dignità di un essere umano?
Fra i due fratelli la risposta sarà una resa dei conti troppo all’italiana (unico flaw del film). Nel mio caso la domanda non si pone proprio, specie se l’essere in questione ha abbandonato la sua umanità a favore di un’esistenza bovina. Meglio ritirare i documenti richiesti e avviarsi all’uscita. Bye, and have a great day.
Poi li ho presi e li ho buttati nel cesso.
L’Americano ama il sorriso, l’ottimismo, il confort. Le comodità, la chiarezza, il nero su bianco : se sei uno/a potenziale stupratore/trice di bambini devi comunicarcelo! Se gli proponi un risotto di mare, devi poi farglici trovare dentro il pesce. Quello che vede, l’americano vuole. Perché l’americano ti prende alla lettera. Se gli dici che la stazione è a dieci minuti e poi ce ne metti 20, rischi. Un rischio più o meno grave a seconda del bietolone di turno. Ma sto anticipando il mio prossimo viaggio. Prima ancora di partire. Di rientrare alla base. Perché io non ce l’ho proprio messa tutta come Primo e Secondo, ci ho provato sì con gli antipasti, e qualcuno in effetti c’era che gradiva. Poi mi sono incagliata. Troppo zelo e poco zest.
Anch’io come Primo, come il Collie della Taylor, come il figlio di quel mercante che si era ridotto a campare di ghiande in mezzo ai maiali; io come la splendida strega del Nuovomondo di Crialese me ne torno a casa. Perché si può. Sicuro che si può. Si può tutto. Io però non ci sono riuscita. E dunque scelgo la fuga. Una fuga in grande stile, col mio nome annunciato più volte dall’altoparlante, all’uscita 7 non c’è rimasto più nessuno e sono pregata di recarmi immediatamente all’imbarco.
L’accento è italiano, è bello, è casa. Quella vera. Quella dove la gente è curiosa, diffidente, e spesso si fa i cazzi tuoi, vizio che trovo stupendamente umano. E che mi è mancato quasi quanto la pommarola e il colore del mare. Dio quanto mi è mancato. Signora, ma che fa, si sbrighi. E io rido e sbircio per vedere se davvero sono l’ultima, poi aggiungo, sa è per fare una sorpresa. E a chi la vuole fare, la sorpresa? (Non biascica un What d’ ya mean?) E io rispondo A mio padre. Che non sa che sarò a bordo con lui. Crede me ne stia tornando sul Delta del Mississippi, su un altro volo, sarà proprio una bella sorpresa. E di colpo afferriamo la corda, la teniamo stretta, io e questo addetto Alitalia, per una manciatina di minuti circa complici della storia di uno scherzo, di un sorriso. Che non avrà seguito alcuno ma non importa, finché è durato è stato autentico e genuino, come un sorso di vino buono. O di acqua fresca. Bevo un ultimo sorso e alzo la bottiglietta a mo’ di brindisi verso l’hostess che mi strappa la carta di imbarco.
Benvenuta a bordo.