Il mio primo decluttering me lo ricordo come fosse ieri: ho cinque anni e sto sul tavolo di cucina accovacciata su un vasino a forma di locomotiva.
Ciuffi-ciuffi … (questa è mia madre col suo forte accento siculo di allora), qua c’è il trenino, qua c’è il trenino, ciuffi-ciuffi!
E quella col Topolino in mano sono io, mentre lei ai fornelli mi incita, intenta a rosolare il coniglio, io devo leggere le avventure di Paperinik, distrarmi, e cacarle i vagoni del treno.
Da brava, fai il regalino alla mamma…
Ma il mio crasso si bloccava, confuso dal profumo di manicaretti che la mia giovane madre puntualmente ogni sabato preparava per la cena di Don Tano, a mo’ di regali. Che lui non ricambiava mai, anzi, un sabato sì e uno no li lanciava contro la finestra, lei si incazzava poi veniva a pretenderli da me. Da me che ogni magnifico aroma che emanava dai fornelli di casa mi faceva venire voglia di ingoiare piuttosto che evacuare.
Lei non si dava per vinta.
Da brava, fai il regalino alla mamma…
Una volta son pure deragliata giù dal tavolo con tutta la locomotiva mentre lei rimescolava la polenta che se la molli un attimo fa i grumi: i clots, quelli che in inglese causano il clutter, e per cui poi ti serve qualcuno che ti stasa, che ti fa il de-cluttering.
La dottoressa T. mi ha informata che il lavaggio del colon risale alla medicina egizia. Ippocrate e Galeno ne hanno fatto largo uso, e nel Sei e Settecento alla corte dei re di Francia pare fosse scoppiata una vera e propria moda, disce che Luigi XIV si fascesse irrigare i budelli con essenza di lavanda. Si dovrà però attendere il XIX° secolo prima che la procedura diventi abbastanza simile a quella odierna, che oggi sfrutta una moderna tecnologia e si avvale di un sistema igienizzato e sicuro, senza troppo disagio per il paziente. Molti i personaggi storici che sono ricorsi a questo salutare trattamento medico, presidenti e attori americani da Madonna a Di Caprio , persino Lady D.
Dopo aver smanettato per una buona mezz’ora alla ricerca, io di dettagli sui Buonaparte, la dottoressa sul libro del Cherubini, mettiamo via i cellulari (entrambe senza risultato) quindi azzerato il volume della soneria mi infilo gli infradito. Lei mi indica il bagno, mi dà un telo bianco da ospedale, mi dice, si spogli, si avvolga che l’aspetto di là.
Stranamente non sono agitata, dev’essere che questa dottoressa molto spiccia mi ha dato fiducia fin dal principio, prima coi suoi tempi di risposta da record ai messaggi WA, (pur essendo oltremodo impegnata) e poi con le sue spiegazioni pane al pane e vino al vino.
Esco dal bagno e nel piccolo ambulatorio c’è un caldo tropicale grazie a una stufettina accesa, mi dice si metta sul fianco sinistro, ecco così, si copra pure.
Io mi sdraio, eseguo, lei mi fa vedere il tubo, una sonda di un discreto diametro, ma un si preoccupi che un sentirà nulla, sci si mette un bel po’ di sgel.
Non mi preoccupo.
Quindi mi indica la macchina e mi chiede se da costì riesco a vedere. Ci riesco? Io annuisco anche se non ho ben capito cos’è che devo vedere, e Bene! Fa lei, poi agita in aria il sondino, ride e annuncia: Evvai che si parte! Si rilassi e si goda l’esperienza. Che, aggiunge – facendomi sussultare – durerà una cinquantina di minuti circa, dipende da me. E dalla mia peristalsi.
Ohimmèna.
A Carrara si dice che la polenta oltre a richiedere una mano ferma ma premurosa, necessita che le si parli. Insomma, gliela devi contare un po’. La devi intrattenere, così ti viene fuori bella fluida e vellutata. L’esatto contrario della mia cacchetta da capra che a cinque anni sul tavolo di cucina mi usciva a stento, a grumetti piccoli piccoli perché la mia peristalsi di regali non gliene voleva fare alla mia giovane e premurosa madre, la quale a quel punto frustrata metteva il coniglio a fuoco basso, mi voltava le spalle e delusa dava giù a tre o quattro stoviglie. Io intuivo che stava mutando espressione, non capivo perché se la prendesse tanto, né lei ha mai capito che più se la prendeva, meno regali riceveva. Specie da Don Tano che un sabato sì e uno no rincasava a notte fonda (o non rincasava per niente) e il coniglio lo lasciava nel piatto o ci decorava le pareti. L’indomani lei ripuliva tutto, poi prendeva il tegame dove precedentemente aveva fatto rosolare la cena, lo riempiva d’acqua come una maga intenta ai suoi intrugli, e già nella cucina saliva l’odore odioso della camomilla e della malva. Quindi qualche goccia d’olio e la pozione era pronta: per venirmi silurata nel culo.
Trattieni, mi raccomando trattieni…
Dopo la silurata ci trasferivamo in bagno, un minutino, ancora un minutino, dove seduta sulle sue ginocchia, un asciugamano sotto il culo onde evitare fuoriuscite anticipate, guardavo lei che con gli occhi lucidi ripeteva, un minutino, da brava, un minutino….
La dottoressa T. dice che a volte è capitato che qualcuno abbia lasciato qualche scia sul pavimento per arrivare in bagno, ma un si preoccupi, più che altro accade nei vecchietti.
Mia madre di storie alla polenta non gliene raccontava manco mezza, noi del clan lo consideriamo cibo da poveracci, e a lei non sembrava il caso di propiziarsi altra sfiga con un pranzo o una cena. Ogni tanto però ci provava a cucinarla, specie quando avevamo un ospite di riguardo. E specie se l’ospite di riguardo era lo zio Giovanni. Lo zio Giovanni era esterno al clan, ed era tutto il contrario del mio padre edipicamente fuori misura. Non faceva che fare regali a tutti, senza pretenderne in cambio. E soprattutto parlava un idioma straniero, estraneo al clan. A mia madre, quando cercava di usare il nostro afrosiculo, Giovanni piaceva un sacco, perché sbagliava gli accenti e intruppicava fra le sillabe, lo guardava incantata e divertita, e malgrado gli sfottimenti di Tano e dell’Amelia, lui non si arrendeva, perché come il mio maestro, diceva che sbagliando si impara. Era l’unico di tutto il clan ad avere finito le medie, andava dicendo mia madre. ‘Na specie d’intellettuale, la rimpallava Don Tano. Peccato che era fidanzato con l’Amelia, che al sud non era riuscita a trovare uno zito, e credo sia il motivo per cui da allora la polenta a mia madre le usciva coi grumi.
L’Amelia al Tano gli veniva sorella, dunque a me zia ma soprattutto mammuozza, ché lei mi aveva battezzata. E io a questa madrina ci ero molto affezionata, perché prima di conoscere Giovanni, dormiva con me e come me c’aveva problemi di ammutinamento intestinale, per risolvere i quali prendeva delle fave strane, altrimenti nisba, non c’era verso. Lei sì che sapeva tenere testa a Don Tano, e ai masculi in generale (… e infatti nessuno se la marita!), ma io di questo ero felice, essendo che, dopo attenta osservazione, corroborata da prove precise, mi ero convinta che c’entrasse molto anche con il mio di ammutinamenti, eccome se c’entrava. Spiegatemi altrimenti come mai la mia pancia contravveniva agli ordini ogni qualvolta lei scendeva al sud in cerca di un fidanzato, poi quando tornava i budelli miei si scioglievano e tutto tornava più o meno alla normalità. Malgrado le mie insistenze, però, la mia giovane madre non si faceva convinta, tanto che una volta, dopo un’estate – io senza madrina, lei senza regali – trovando una confezione ancora piena di fave, scartando le mie teorie e ignorando le mie suppliche, me le aveva ficcate nel culo. Ovviamente senza risultato alcuno. Poi disperata si era rivolta al nostro pediatra che un po’ ci aveva riso sopra quindi l’aveva rassicurata che con lo sviluppo tutto si sarebbe risolto, frattanto un clistere ogni tanto … Questa bimba trattiene troppo.
Ché io non capivo precisamente cosa significasse la parola sviluppo, e immaginavo il mio intestino attorcigliato che a un certo punto della mia vita si sarebbe sciolto, sviluppato, appunto. Verso gli undici anni cominciai a giocherellare con la fantasia di un principe azzurro, abile sviluppatore di pance che mi avrebbe districata e salvata, un uomo dolcissimo, che come Gesù avrebbe messo una mano sulla mia pancia e accarezzandola avrebbe pronunciato parole magiche del tipo: Pancia, sviluppati! Senza infilarmi oggetti gommosi e appuntiti nel culo. Ma soprattutto senza pretendere regali.
Ma andiamo per ordine. E torniamo al giorno in cui la mia piccola locomotiva deragliò e io precipitai dal tavolo dove ho tralasciato di dire che la mia madre di scorta era entrata sul più bello annunciando che si era fidanzata con l’intellettuale Giovanni. Fu quello uno dei primi campanelli d’allarme, che veniva a dire che presto mi avrebbe disertato e avrebbe portato il culo da un’altra parte. E io sarei rimasta a dormire da sola e ad aggrumarmi, con Don Tano e la mia giovane madre di là a questionare e a lanciare voci e conigli in piena notte. La conferma arrivò quando l’anno dopo si sposarono e io non cacai per tutto il tempo del loro viaggio di nozze, al contrario della Amelia che a questo punto andava che sembrava pagata. La mia giovane madre invece mandò al diavolo la polenta e per tutta la durata della luna di miele e si rimise a silurarmi peggio di prima.

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