Un racconto di Sonia Pendola
I tubi sono due, uno in entrata e uno in uscita, regolati da un rubinetto che inverte il flusso dell’acqua, che prima entra, irriga, quindi esce ed espelle tutto quanto dev’essere eliminato. La dottoressa armeggia qualche minuto poi me li infila tutti e due, non più di tanto, che in effetti non è doloroso e si sentono appena. Quindi riabbassa il telo, Pronta..? mi chiede, e io annuisco, e dopo qualche istante comincio a sentire un fiotto fresco che lentamente inonda i budelli, una sensazione mai provata prima: in pratica sto bevendo dal culo! L’immagine mi fa ridere anche perché mi viene in mente questa roba che ho letto su un blog a proposito dei santoni Maya che si iniettavano le droghe direttamente nell’ano! E mi piacerebbe ora incollarvi un paio di foto (ma poi col copyright…), perché il tipo del blog ne ha pubblicate una mezza dozzina, una più esilarante dell’altra, tipo una statuetta di terracotta raffigurante un tizio o tizia, non si capisce bene, che carponi si spara un clistere con una mano, mentre con l’altra si regge la scapola e se la ride beato/a. In un’altra si vedono uccelli e serpenti fluttuare per aria e il santone che li osserva come fosse al cinema con la bocca spalancata e gli occhi estatici. Spararsi la droga nel culo significava amplificare gli effetti stupefacenti ma anche evitare di danneggiare il fegato o lo stomaco. E io penso anche che non mi dispiacerebbero una o due gocce di una qualche sostanza che riuscisse a riattivare la mia esistenza sensoriale completamente assopita, glielo potrei chiedere alla mia personal declutterer di prescrivermi una specie di Prozac per uso rettale. Lei però è presa dalle sue manovre, ce la sta mettendo tutta in questa operazione nei cui effetti benefici crede molto, e ci tiene a che io ne segua il decorso sulla finestrella. Guardi costì, dice, che ora passa il primo treno (!).
Ora, liberissime e liberissimi di pensare che questa del treno l’ho aggiunta a bella posta per creare l’effetto-aggancio col mio vasino-locomotiva di bambina, ma vi posso giurare sul mio crasso che non è affatto così: la dottoressa T. ha proprio usato questa immagine del treno, va’ a capire perché, e se la usa con tutti o solo con me che chissà come le ho ispirato questa simbologia ferroviaria, vallo a capire. Fatto è che è poi da lì che mi è partito lo stimolo di evacuare questa storia, disincrostandola da dove era andata a (co)stiparsi in chissà quale ansa rinsecchita della mia coscienza. Spetti, ‘spetti, che a momenti passa il primo.
Ma io resto girata di lato, anche perché ora mi scappa forte da ridere (e non solo) con lei che insiste e ripete: Vedrà che sciò, vedrà che sciò!
Prima dello sciò però devo finire di descrivervi il macchinario che da un momento all’altro mi sgorgherà i budelli, altrimenti magari non si capisce. Si tratta di una grossa scatola di metallo dotata di valvole, termometri, manometri, collegata al rubinetto dell’acqua, che viene debitamente filtrata e sterilizzata, e che attraverso una sonda monouso a due vie defluisce dentro l’intestino passando dal retto. Le due cannule servono, una a mandare acqua pulita, l’altra a espellere quella lorda con tutto il materiale di scarto accumulato nei giorni, talvolta mesi (!) precedenti. Si spinge tanta acqua quanta il paziente ne può tollerare, e questo induce la formazione di onde peristaltiche; quindi, quando lo stimolo si fa urgente (“Dica lei quando…”), la cannula in entrata viene chiusa, il flusso si inverte e si apre quella in uscita, con l’acqua che si scarica trasportando il contenuto da eliminare: in and out, in and out.
Il procedimento viene ripetuto più volte fino a quando l’acqua non esce completamente pulita. Ho poi dimenticato di dire che i due tubi sono trasparenti; quindi, è possibile apprezzare il grado di limpidezza dell’acqua, e tutti i detriti che ci “navigano” dentro, guardando dentro una finestrella posta al centro della macchina.
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Dopo sposati Giovanni e la Amelia andarono a vivere a cinquanta metri da casa mia, in un appartamento che aveva anche il tinello, e fortunatamente (ma solo per me) ad ammutinarsi ora si mise la seconda pancia della mia madrina, che malgrado i frequenti e regolari regali dello zio (incluse le mazzette che puntualmente le mollava al ritorno dai viaggi con il Volvo), continuava a rimanere vuota e per un po’ di tempo in famiglia non arrivarono concorrenti a spodestarmi dal mio regno che si estendeva entro i confini di un tinello ma che per me era come un Eden.
L’Amelia sapeva guidare, e quando Giovanni partiva con il Volvo e stava via dei giorni, io e lei ce la spassavamo sfrecciando con il coupé 850 decappottabile, lei con il foulard che sventolava e io con la bocca aperta che mangiavo l’aria, mangiavo la vita. Mi portava al cinema a vedere i film dei grandi (se non erano vietati); al ristorante a mangiare la pizza, e quando doveva andare in banca a versare le mazzette mi portava con sé e mi comprava i bomboloni caldi in Piazza D’Armi. Mi diceva, Aspettami qui che faccio presto, e io mi sentivo grande anche se avevo pochi anni, perché lei si fidava a lasciarmi da sola. Donavo con incredibile puntualità e stessa cosa faceva lo zio Giovanni con me. Che era dolce molto più di Don Tano, bello, alto e sempre allegro. E a differenza del mio vecchio parlava. Mi ricordo di questa cosa che ripeteva sempre, diceva, La macchina deve servire a me, non io alla macchina. Don Tano gli lanciava un’occhiata un po’ lessa, poi si rimetteva a passare la cera sulla Printz.
Ma io Giovanni lo rispettavo lo stesso, ché nel coupé ci potevo sbrodolare i ghiaccioli in santa pace; e non quelli sbiaditi delle cantine dove di tanto in tanto mi trascinava Don Tano, ma quelli di Rosellini, coloratissimi con la ciliegia incastrata dentro. Davanti all’ingresso c’era Dumbo quello vero del cartone, e oltre al giro sul coupé mi beccavo anche la cavalcata sull’elefante.
Prima di ogni viaggio mi portava a fare nafta. Mi sentivo alta sette piani, mi sembrava di volare, dentro avvertivo tanta fluidità e beatitudine, impazzivo a guardare il mondo dall’alto. Mi piaceva che per farmi scendere dalla motrice Giovanni mi prendeva in braccio, una mano sulla schiena e una sulla pancia e non mi metteva più giù, io continuavo a succhiare il mio ghiacciolo e a restarmene e a dominare tutto dall’alto fino a quando non arrivavamo dentro casa dove allora correvo in bagno a svuotare il mio giovane Ade ancora non troppo cluttered sul water azzurro della Amelia. Poi mangiavamo insieme i suoi pranzi unti quindi a notte fonda Giovanni ripartiva col rimorchio bello pieno, e io dormivo con l’Amelia che l’Alcyon ancora non lo prendeva, solo le fave (altrimenti al mattino nisba, non c’era verso.).
La cacciata dall’Eden non si fece attendere. A un certo punto, magia delle magie, alla mia madrina la seconda pancia si sviluppò una volta per tutte, e prese a crescere a dismisura, non una bensì due volte nel giro di due anni, cosicché in famiglia arrivarono due concorrenti sleali, che presto mi sottrassero tutti i privilegi, incluso il posto d’onore sul Dumbo, che per un po’ ci ostinammo a cavalcare in due, quindi addirittura in tre, e la schiena della povera bestia cominciò a incepparsi e infine a non farcela più e indovinate chi dovette cedere il posto?
Ben presto mi stufai anche dei giri sul Volvo perché a questo punto ero grandina e avrei di gram lunga preferito viaggiare col Ciao, che fu uno dei regali più belli (ed effimeri) dello Zio Giovanni e della mia vita in assoluto, peccato che il malefico Tano lo rispedì nottetempo al mittente, e non ci fu modo di riaverlo indietro.
A differenza della mia amata mammuozza, la mia adolescenza sarebbe stata baciata dalla fortuna in fatto di masculi, e quello stesso anno arrivò un fidanzato da Milano che un po’ allo zio Giovanni ci somigliava perché era alto come lui e come lui c’aveva il naso a punta e pure mi portava a fare i giri fuori dai territori di pertinenza di Don Tano, con il PE 200 arancione, poi trovava sempre questi posti appartati, mi si sdraiava sopra e cominciava a strusciarsi sulla pancia che non è che mi dispiacesse, non fosse per il fatto che in orbita ci andava sempre e solo lui. Poteva mica durare? Ovvio che no.
Anche perché un informatore (o informatrice) di Don Tano lo mise al corrente e questi minacciò di tagliarmi le gambe al che io decisi saggiamente che il taglio lo avrei dato anzi al fidanzato.
A mano a mano che i miei due concorrenti crescevano le cose per lo zio Giovanni si mettevano male, la mia madrina riprese a drogarsi di fave e di gocce di Alcyon e per Giovanni iniziò una lenta e lunga ascesa sull’Ara della Dea Sfiga. Perché con l’arrivo di quei due popo’ di regali la Amelia prese a sfotterlo e a tormentarlo ancora di più, lamentando che non erano usciti propriamente come li voleva lei: e le mazzette non le bastavano, e il tinello era troppo piccolo, e la vita ce l’aveva con lei. Da lì a poco la primogenita sarebbe finita a distribuire oppio dei popoli la domenica mattina; il maschio a iniettarsela direttamente in vena. Chi ci ha sempre dato dentro più di tutti con lo sfottimento dello zio Giovanni però era Don Tano, e più lui lo sfotteva più mia madre lo rispettava e ammirava e per lui sempre cucinava polente, grumo più grumo meno.
Io dal canto mio decisi saggiamente di rivolgere la mia attenzione altrove e mi concentrai sulla ricerca di altri principi azzurri esperti sviluppattori, con gran disappunto del mio smisuratissimo padre.
Con la maggiore età presi in esame una sfilza di possibili candidati che avessero mani ferme e premurose, ma malgrado il discreto numero, la mia incapacità evacuativa non si risolse mai una volta per tutte, e ogni fidanzato alla lunga finiva sempre per provocare un ammutinamento da qualche parte, in qualche organo, in qualche ansa del mio Ade.
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