Una volta, poco dopo la morte di mia madre, e dopo il mio matrimonio – anzi, stavo giusto facendo i bagagli per raggiungere Andrew a Vancouver -, rimasi a casa sola con mio padre per un paio di giorni. Per tutta la notte piovve a dirotto, da far paura. Alle prime luci del mattino, ci accorgemmo che il prato dei tacchini era allagato. Per lo meno lo erano le zone più basse, perciò ora sembrava un lago pieno di tanti isolotti. Sui quali si erano raccolti e ammassati tutti i tacchini. I tacchini sono animali molto stupidi. (Mio padre diceva sempre: «Hai presente i polli? Sai quanto sono cretini i polli? Be’, un pollo è Einstein in confronto a un tacchino»). Comunque, erano riusciti ad accalcarsi sui dossi di terra evitando di morire annegati. Adesso però avrebbero potuto spingersi in acqua a vicenda, soffocare nella ressa o prendere freddo e morire. Non potevamo aspettare che la pioggia si ritirasse. Uscimmo su una vecchia barca a remi. Io remavo e mio padre tirava i pesanti tacchini fradici a bordo per poi riportarli nella rimessa. Stava ancora piovendo un po’. L’operazione era faticosa, assurda, e molto poco agevole. Ci venne da ridere. Ero contenta di lavorare con mio padre. Mi sentivo a mio agio con i lavori duri, estenuanti e ripetitivi, quelli che stremano il corpo e fiaccano la mente (anche se certe volte invece lo spirito può mantenersi meravigliosamente leggero), e sentivo in anticipo la nostalgia per quella vita e quei posti. Pensai che se Andrew mi avesse vista li, sotto la pioggia, con le mani rosse, infangata, nell’affanno di acchiappare i tacchini per le zampe e di remare allo stesso tempo, avrebbe so lo voluto portarmi via e farmi dimenticare tutto. Quella vita cruda lo mandava in bestia. Come pure il fatto che io vi fossi tanto legata. Pensai che non avrei dovuto sposarlo. Ma chi altri, allora? Un operaio dell’allevamento?
Naturalmente non l’ho scritto io, né sono mai stata nel Montana, ma la buona letteratura consente viaggi di lusso a questa maniera, e grazie a Antonio Pascale che da giorni ha riportato in vita il mio senso estetico e la voglia di viaggiare (fra le pagine della buona letteratura), o diciamolo, ha riportato in vita la voglia di vivere e punto, ecco da giorni sfoglio avidamente le pagine di Alice Munroe, che stando ad Antonio dovrebbe servirci per trovare la nostra voce narrativa. Sarà.
Per adesso serve solo a provare una invidia profonda.
Non la conoscevo, la signora Munroe, premio Nobel per la Letteratura, che mi ha rimesso le ali ai piedi (e riportato le braccia dai campi al pc).
Il brano sopra è tratto da “Miles City, Montana”.