È piuttosto volgare, il buon senso. Abbassa il livello delle aspirazioni, valuta le possibilità di successo e soprattutto quelle del fallimento, calcola. Il coraggio, la sincerità e l’istinto non hanno nessuna possibilità di resistergli, se gli dai il tempo di organizzarsi e di preparare la controffensiva. L’impulso che ci spinge a cambiare, il vento che rovina, non ha quegli argomenti, anzi spesso non ne ha affatto. Non si lascia corrompere da ragioni di convenienza e non pretende di aver ragione. Propone scelte estreme e irresponsabili e non promette risultati. Possiamo assecondarlo o sopprimerlo, prenderlo o lasciarlo, dire sì o no. È questo il bello.
(D. De Silva, Mancarsi)
Selçuk, Turchia, Settembre 2013
Il bello di un viaggio è la scoperta che non ti aspetti e in cui non speri, quello che c’è dietro la prossima curva, la stazione successiva, l’isola di fronte. Ma può essere anche una sedia buttata là, ti siedi, volutamente perdi un treno o un bus, scrivi, pensi, capisci cose importanti, momenti di nitido chiarore. L’inaspettato non sai da dove viene, non l’hai voluto tu ma è lì per te, è questo il regalo più bello e poco importa se non sappiamo da che mano arriva.
Così arriva che bevuta la mega spremuta, cerco le “touvaletes” per darmi una rinfrescata, uscita fuori mi informo su orari e mezzi e poi mi viene un dubbio: se proseguire per una città morta e sepolta o se fare un salto dietro le quinte dell’Otogar.
E decido che la morte quest’anno l’ho frequentata abbastanza e ora ho voglia di vita, di luci e di colori.
A me quando viaggio mi frega (del)la gente, la gente del posto. Mi lascio distrarre incantare, deviare, comincio a parlare nella lingua del paese in cui mi trovo, importa assai se è turco, io ci provo. E mi diverto un mondo. Se non funziona parlo con gli occhi. E sempre quelli mi rispondono. E perdo tempo…
E il primo dolmus per Efeso…
… e il secondo …
… e il terzo.
I musei non mi fanno impazzire e preferisco quelli all’aperto preferibilmente dove non si paga il biglietto d’entrata, dove le guide sono le persone che incontri; i reperti,
i loro racconti. Tanto poi tornati a casa, quelle spiegazioni, quegli oggetti sotto vetro, dietro transenne protettive che sembrava tanto indispensabile vedere e immortalare li dimentichi con la ripresa della quotidianità, e basta un programma televisivo a condensare le file che hai fatto, le attese, le informazioni smozzicate, cosicché le riviste o libri, le guide illustrate, opuscoli e pubblicazioni finiscono in un cassetto o in stand-by sul comodino, o restano in valigia fino al prossimo viaggio.
Don’t you agree?
Chiudo il libro e sbircio in quello del mio vicino che legge un Penguin Classic, quindi capisce l’inglese, ma nemmeno lui sa dirmi niente di :
a) come ci arrivo dall’Otogar di Cesme al porto;
b) quanto dista ;
c) quanto costa
e dunque e) cambio argomento e gli domando come ci vedono loro turchi a noi italiani.
È un’altra di quelle domande a cui non resisto, so che poi mi pento, quindi mi odio esattamente come quando faccio la fottuta, Quanti anni mi dai?
Stavolta invece con sorpresa la risposta è piacevole da sentire, tanto piacevole quando errata, il tipo dice che noi italiani sì che sappiamo goderci la vita. Ma in che film è rimasto questo? Ma almeno a che ora parte ‘sto pullman lo sa?
Nònsa, come il turco di Mediterraneo.