Al Check-in
La cosa più bella di un viaggio (secondo me) è il momentaneo cambio di persona, quella maschera che dai latini in poi ognuno di noi mette su a seconda del ruolo che decidiamo di recitare. Gli attori teatrali, nell’antica Grecia, la utilizzavano per dare sembianze al personaggio, e far sì che la voce, per-sonando, fosse sufficientemente udita da lontano. Presente Ulisse? quando decide di essere Nessuno, di azzerare tutto e ricominciare daccapo? Nel programma c’è anche l’astuto distruttore di città, ci servirà per i pronomi indefiniti. Nobody is my name! Poi leva l’ancora e fa bye bye al Ciclope. Salvo. Grazie a un pronome indefinito.
Io la mia salvezza la recupero al banco del check-in. Dall’omonimo verbo che significa registrarsi, consegnare la propria identità. Name, surname, passaporto, biglietto… Una volta sbrigate le procedure, con la boarding pass stretta in mano, si accede a una zona franca, un neutral ground dove la vita diventa “duty free”. Storpiano un po’ il tuo già disgraziato cognome, ma in cambio ti affrancano tutti i peccati accumulati, il passato è condonato, azzerato, la fedina penale ripulita. Cosicché, se anche qualcuno sale a bordo per ricordarti chi sei veramente e da dove vieni, ti basta raccontarti al primo sconosciuto o sconosciuta che incontri nel modo che ritieni più opportuno. Per loro non sei nessuno. Ti reinventi. Altro ascoltatore, altra storia. Gli affidi il tuo passato imperfetto e ti si spalanca davanti un nuovo futuro. Ma non è da tutti raggiungere la salvezza grazie a un pronome indefinito. Accettare di essere nessuno, come il re di Itaca, e da lì ripartire. Rinascere da zero. Dal niente. Come la città di Las Vegas, scaturita dalla polvere di un deserto che ha causato infiniti naufragi. Incluso il mio.
Il volo Pisa-New York aveva due ore di ritardo e dato che Lorna insisteva, per sdebitarmi del dentifricio, le ho offerto un po’ della mia focaccia di Tognozzi. Si è rivelata un’ascoltatrice coi fiocchi, vera travelling companion, degna dell’etimologia originaria. Fra un boccone e l’altro le ho raccontato perché ho venduto la casetta di Marina. Del mio giardino fiorito: troppo impegnativo. Della cucina: troppo piccola, senza tavolo per gli ospiti. Il mio bell’americano odiava gli ospiti. Amava me. Che gli bastavo (e avanzavo). Non mi interessa nessun altro. I don’t care. E allora diamo la colpa al boxer del pasticcere, e all’idraulico di fronte. Diamogliela a quella nuvola di merda. E alla serenità, che mi provoca allergie. Stronza che non sono altro, perché non ho studiato Schopenhauer a suo tempo?
Coi miei students over-forty finiva sempre che ripiegavo su Gloria Gaynor – I will survive! – sul grande Bowie, il quale si auspicava di diventare king, senza tuttavia metterci la mano sul fuoco. Posso forse dire con certezza se sopravviverò? se e quando sarò la regina di qualcuno?
Oh, I am sure you will.
Anche Lorna aveva ottimismo da vendere.
Io non se ne parla. Armata com’ero di una moltitudine di will più un asso nella manica, a dire il vero in valigia, che avrei tirato fuori al momento opportuno, di modo che con un po’ di fortuna a Las Vegas avrei trovato la mia felicità come si auspicava mia madre, e tanti saluti a Schopenhauer, ai vigili di Carrara, alla Piazzetta della erbe e ai suoi inquilini disgraziati che ci pascolano dalla mattina alla sera, una bella carica di dinamite e bang! Les jeux sont faits! Rien ne va plus. Da questo momento ogni dispositivo elettronico dovrà restare spento fino all’atterraggio. Incluso il mio che tanto non mi sarebbe servito a niente, se non a ricordarmi del mare sul display. Col mio sorriso rassegnato. Me lo ero immortalato prima di partire. La Palmaria e il Tino nello sfondo. Mentre l’aereo sorvolava il Golfo dei Poeti il capobanda ha continuato imperterrito la sua transaction via satellite. Ies… ies… ai ev’ z’ bloc. Sciuur! Sciuur! Tranquil. Don uori.
Hic et nunc. Finché c’è marmo c’è speranza and I will survive.
* Da(l mio) “Lezioni di Far West”